Andrea Zannini

L’economia veneta del 1500
La produzione nel settore agricolo
Gli scarni dati di cui si dispone sono due stime dei rettori veneziani sulla produzione del frumento nel padovano e nel veronese. Queste segnalerebbero per la metà del '500 livelli di rendimento relativamente buoni: tra 6 e 7 q/ha.
Pochi dubbi sussistono invece sul fatto che una parte consistente del territorio di pianura fosse incolta o impaludata, e che nel suo complesso questa economia agricola non riusciva a garantire l'autosufficienza alimentare dello stato, e frequentemente venivano importate derrate alimentari dall'estero: soprattutto grano, carne bovina e vino.
Due fenomeni diversi ma coincidenti erano già all'opera:
- da un lato la penetrazione delle élites cittadine (massime veneziane) nel territorio rurale,
- dall'altro il processo di bonifica di ampie porzioni del territorio e di messa a coltura degli incolti, anche attraverso l'espropriazione di beni delle comunità rurali o di enti ecclesiastici.
Nel quarantennio tra 1550 e 1590 questo duplice processo fu favorito dalla spinta crescente dei prezzi cerealicoli che favorirono gli investimenti nella terra e la produzione di grani, che trovavano una collocazione redditizia sui mercati cittadini.
A fine secolo si giunse significativamente a garantire l'autosufficienza alimentare della capitale. Vi dovette concorrere in primo luogo l'aumento della superficie coltivata che, grazie alle bonifiche, crebbe di 100.000 ha, equivalenti ad un 3% circa della superficie agraria della parte italiana della repubblica.
A tale espansione della superficie coltivata vanno poi aggiunti gli incrementi dovuti alla messa a coltura di terre marginali, nonché i vantaggi derivanti dalla conversione di prati, pascoli e boschi in arativo: vantaggi in parte annullati dalla diminuzione di risorse preziose come l'allevamento o il legname.
Per quest'ultima risorsa la mancanza di dati è particolarmente grave. Un'unica fonte indica negli anni attorno 1569 il punto più basso dei boschi veneti: una indicazione significativa perché coinciderebbe con il tetto demografico pre-peste e con la congiuntura militare che portò alla guerra di Cipro e al bisogno pressante di armare una flotta numerosa.
La trasformazione delle tecniche auspicata dagli agronomi non ebbe invece luogo e la rotazione triennale rimase largamente prevalente, né risultano venissero applicate particolari innovazioni tecnologiche; nessun dato testimonia poi un aumento delle rese e la quota di territorio riservata all'allevamento dovette piuttosto diminuire.
Quanto all'introduzione o espansione di nuove colture, va notata una crescita, in alcune zone sensibile, della risicoltura, che tuttavia nel Veronese, la provincia in cui ebbe maggiore espansione, coprì al massimo nell'ultimo decennio del secolo lo 0,5% della superficie agraria. Anche la gelsi-bachicoltura aveva una qualche importanza, seppur ancora contenuta.
A parte le risaie, gli investimenti furono quindi generalmente indirizzati all'espansione della superficie coltivata e non al miglioramento produttivo.